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Tradizione e innovazione, laddove forte è il legame con Venezia e la sua arte

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Il mio motto di vita: comprare un'opera d'arte al giorno

Peggy Guggenheim

GuidiMusic, Tancredi, DeluigiSchultz, Licata, Gambino; accomunati per non essere nati a Venezia ma per averla vissuta e scelta come città d'adozione, alla quale ispirarsi attraverso la sua arte, da cui ricavare colori e atmosfere, fonte d'ispirazione cui attingere per maturare e sviluppare la loro vena creativa. E i veneziani Santomaso, Vedova, Bacci, Morandis insieme in una stagione speciale, unica, irripetibile tra Biennale e Ristoranti dell'arte.

Virgilio Guidi (1891-1984) il cui nome si identifica con un puntino azzurro affogato in una velatura di bianchi. Le sue Marine impalpabili, minimaliste, dove il richiamo alla mimesi del luogo, che sia il bacino di San Marco o San Giorgio, è puramente mentale; poiché non serve abbandonare l'immagine, basta darle nuovi significati, facendo della visione un'emozione panica, come sosteneva sin da quando si trasferì in Laguna da Roma, immergendosi in quelle atmosfere nebbiose, dai contrasti zenitali di certi tramonti dietro la Salute. Del resto lo studio-atelier sopra l'Harry's Bar rappresentò per "il Maestro" venuto dalla Capitale una sorta di “camera ottica”, inquadratura perfetta entro cui ritagliarsi uno spazio visivo e mentale.

Zoran Music (1909-2005) Heimatlos, viandante senza patria; in realtà il suo cammino errante partito da Gorizia, passando per Vienna, Praga, Zagabria, Madrid, Toledo, lo ha interrotto a Venezia dove, ha trovato una nuova luce; luce del sole, dell'orizzonte basso sulla laguna, della vita che riaffiora dalle tenebre e dal silenzio. Vi giunse nel 1943 e vi scoprì l'Oriente, lo stesso delle sue origini, dove la sua cultura visiva, bizantina e mitteleuropea, poteva trovarvi la sintesi perfetta di Oriente e Occidente.

Anche per Tancredi Parmeggiani (1927-1964) “uragano leggero” come fu definito, lo spazio non poteva essere che mentale, e la pittura era il mezzo attraverso il quale sfogare o liberare le proprie inquietudini esistenziali. Senza titolo, Primavere, Papaveri o Matti, galleggiano sulla superficie di tela o faesite come macchie aeree senza peso, fluttuando in uno spazio cosmico frutto della sua fantasia e dei suoi tormenti.

Mario Deluigi, (1901-1978) “il Professore”, coi suoi Grattages faceva emergere dalla tela il bianco atmosferico sottostante la pittura, mentre negli Amori lasciava fluttuare sagome immateriali nell'atmosfera.

Raoul Schultz (1931-1971) con le sua carta da musica, coi calendari, coi "ninzioleti", attraverso l'immaginazione rielaborava il reale elevandolo ad opera d'arte. E nella sua "pittura a metro" Venezia diviene protagonista di una visione colta a volo d'uccello.

Ebbe a dire Riccardo Licata (1929-2014) spiegando il significato dei suoi segni, in apparenza uguali a se stessi da sessant’anni, ma sempre diversi come le sensazioni e le realtà che li determinano: “Per me dipingere è una necessità: ho scelto questo mezzo per esprimermi e per comunicare… cerco di dipingere la vita come se scrivessi il mio diario: tutto ciò che intellettualmente e sensorialmente mi interessa lo traduco nella mia pittura... non è qualcosa di incomprensibile, il pubblico deve avvicinarsi senza pregiudizi, deve amarla, deve sentirla con l’anima, deve ascoltarla con gli occhi: come quando si ascolta la musica, la si ama, ma senza troppo sapere ciò che rappresenta e che sottintende”.

Le pennellate materiche cariche di colori assolati, caldi, le linee nordiche, espressionistiche di Giuseppe Gambino (1928-1997) trasmettono un'altra visione, più sofferta e lacerata, di un foresto che viveva la città appropriandosi delle tracce del tempo trascorso sulle sue pietre e sui muri dei palazzi.

Giuseppe Santomaso (1907-1990), "Bepi", figura fondamentale nella Venezia del secondo dopoguerra fu lui ad introdurre la giovane ed eccentrica mecenatessa americana Peggy Guggenheim negli atelier lagunari, protagonista di quel "Fronte Nuovo delle Arti" che trasformò la figurazione in astrazione, lasciando traccia sulle sue tele delle memorie visive catturate passeggiando per la città, ispirandosi da studio oltre la finestra, guardando le sue architetture.

Dirompente la forza espressiva di Emilio Vedova (1919-2006) che per spiegare le sue opere rivelava, “le mie non sono creazioni ma terremoti, i miei non sono quadri ma respiri”. La pennellata era stesa come un continuum a volte riproposta in formato ellittico, quasi a riprendere la circolarità del gesto della mano che, come un vortice di colore rosso o nero, veniva trasferito sulla tela come una vampata emotiva.

Gino Morandis (1915-1994) e Edmondo Bacci (1913-1978) nelle loro interminabili discussioni sullo Spazialismo che li accomunava, per l'uno la forma era implosione di colore e di luce, una forma che restava compatta al centro del quadro, al contrario per l'altro era esplosione sfaldata nello spazio, come una nebulosa; quasi che Morandis trattenesse l’emozione, e Bacci la liberasse.

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