Mostre

Armando Marrocco un incontro inaspettato

Data
19 Sep 2022
Autore
Michela Luce

Ripensando alla mostra di Marrocco alla Galleria Luce di Venezia, giugno 2022

Armando Marrocco un incontro inaspettato

Da una chiacchierata con l'amico Toti Carpentieri, conosciuto proprio qui in Laguna all'epoca della storica, memorabile esposizione di Palazzo Grassi “Futurismo & Futurismi” nel lontano 1986, è nata un paio d'anni fa l'idea di dedicare una mostra ad Armando Marrocco.

Non avevo mai approfondito la ricerca su questo instancabile, vulcanico, entusiasta sciamano che ha interpretato con curiosità l'arte dagli anni '60 ad oggi, ma conversando con Toti in merito ad una personale che stavo ospitando nel mio spazio a fianco del Teatro la Fenice dedicata al romano Mario Ricci - incentrata su lavori apparentemente tridimensionali, in realtà trompe-l'oeil che in un gioco di sfumature stimolavano effetti di profondità illusoria, - stuzzicata da Toti, ho individuato nel ricchissimo percorso artistico del suo amico-conterraneo una sorta di fil rouge che mi è sembrato unire l'artista pugliese, originario di Galatina, e la mia città fondata sulle acque della Laguna.

Muovendosi tra Arte Comportamentale e Concettuale, rivisitandola in chiave personalissima e sempre coerente, rispettosa del suo essere e della terra da cui proviene, Armando Marrocco dalle sue prime esperienze milanesi a fianco del guru di quegli anni quale fu Pierre Restany, a contatto con l'arte di Fontana, amico di Ives Klein per un tempo brevissimo a causa della sua improvvisa scomparsa, ha fuso quale novello alchimista ogni ingrediente di quella cultura vivace e propositiva. Ne è derivata una straordinaria, ricchissima, intima, produzione in continuo evolversi che non può prescindere, pur di fronte allo Spazialismo, all'Arte Cinetica, Programmatica, Comportamentale fino alla Land Art, proprio da quelle sue radici salentine.

Origini che si colgono nei suoi monocromi decisi, nel bianco abbagliante, in quel rosso carico e contrastato che solo la luce meridionale riesce ad esaltare, nel giallo caldo, fino a quell'oro pulsante che ha usato nella serie degli Intrecci cui si è dedicato negli anni '60.

E proprio da questi ho deciso di iniziare il mio viaggio dalla Puglia a Venezia trovando riferimenti e sintonie; l'oro di cui è intrisa Venezia, che assorbe per poi riflettere dalle tessere marciane la luce dei tramonti che vi si specchiano, quell'oro delle pale d'altare dipinte dai Vivarini, che diventa nella trasposizione di Marrocco una ricerca di profondità, di movimento della superficie attraverso segmenti che si intersecano, interrompendo la fissità del piano in un gioco dinamico di luce e di riflessi. Gli stessi materiali poveri da lui utilizzati, cartoncino, faesite (quella faesite che in molte occasioni usarono i veneziani Tancredi, Vedova, De Luigi nello stesso periodo, altra convergenza!) gli consentivano di muovere l'apparente fissità del monocromo, animandola come bassorilievi, dove il foro, volutamente lasciato tra un intreccio e l'altro, serviva a creare movimento e a suggerire un oltre.

Differenze ed assonanze continue: il bianco di De Luigi emerge dalla profondità, quello di Marrocco, minimalista e accecante, è quello della calce che connota le case del Sud, proviene invece dall'esterno. Da punti di vista diversi, sembrano giungere ad una convergenza che si identifica nel gesto di Fontana, i cui tagli o buchi della tela non erano tanto una violazione dell'opera in sé, quanto, come spiegò l'artista italo-argentino fondatore dello Spazialismo e del Manifiesto Blanco, la ricerca di un'altra dimensione al di là del quadro, “la libertà di concepire l'arte attraverso qualunque mezzo, attraverso qualunque forma”.

In questa sperimentazione di Marrocco ho ritrovato delle similitudini con quei Grattages del veneziano De Luigi, intento tra la fine degli anni '60 e i primi '70 coi suoi Motivi sui vuoti, a scavare nel bianco delle tele alla ricerca della luce sottostante attraverso squarci nello spazio che intendevano ricreare una luminosità tutta veneziana, facendola riaffiorare dal profondo.

Una tradizione che proveniva da lontano, laddove luce, spazio, colore, sono elementi imprescindibili nella storia delle arti della città lagunare; dai cieli di un azzurro trasparente dipinti da Veronese e Tiepolo, agli ineguagliabili bagliori crepitanti come stilettate usciti dalle pennellate di Tintoretto, scendendo, più vicino a noi, fino alle atmosfere rarefatte di Guidi con le sue Marine spaziali che sembrano fondere le forme nell'atmosfera. La luce avvolge, unifica spazio e tempo. Lo spazio accoglie forma e colore, e nella luce esalta i volumi. Il colore contestualizza, ancorando l'opera al luogo in cui è stata prodotta.

Gli stessi Mediterranei di Marrocco nascono dalla tradizione che unisce quella luce alla materia; sono monocromi dove il colore ha uno spessore, un corpo che riflette le radici ancora vive e pregnanti. Assorbono il sole sulle superfici e riflettono di rimando la sua carica di calore.

Le Dimore, inclusive tavole di legno preziose come reliquie, bendate, fasciate, garzate con stoffe, sono impregnate di un valore sacrale esaltato dall'oro; dettagli di pale d'altare d'ascendenza bizantina che risalgono a miti lontani incisi come fossero geroglifici che si schiudono quali finestre aperte sulla memoria, viaggi da un passato lontano che ritorna nel presente, ponte con l'Oriente in un dialogo continuo tra la Venezia di Marco Polo e la Puglia, avamposto della Serenissima che conserva ancora sui suoi monumenti i segni di un glorioso passato comune.

Sono tracce di un tempo che permea il presente di un prima e un dopo, rendendolo eterno.