La vetrina di Gambino

Data
26 Nov 2022
Autore
Michela Luce
La vetrina di Gambino

Un ricordo di Giuseppe Gambino

 

Non riesco ad immaginare di scorrere lo sguardo sulle pareti di casa senza venire risucchiata dalle cromie calde e solari, dalle linee marcate e cupe, dalle figure allungate e assorte, dalle inquadrature senza tempo uscite dal pennello di Giuseppe Gambino.

Le sue opere mi accompagnano sin da quando ero piccola.

Ricordo ancora quando mio padre tornava, dopo essere stato nella sua casa vicino a Preganziol, e fiero scartava il pacco di quadri appena comprati e che profumavano di olio ancora fresco.

Quei suoi paesaggi assolati, quei muri infuocati, carichi di memorie che si sono fatte spatolate materiche di colore, mi hanno avvicinato alla pittura, schiudendomi un mondo che ormai è parte di me.

Facciate che vedevo a casa e che poi, come per magia, riconoscevo girando a passeggio per la mia Venezia, oppure scorci di città lontane che ancora non avevo visitato.

La Sicilia, Roma, Cordova o Siviglia, tutte assorbite visivamente da Gambino come spunto per fissare l’attimo vissuto, trasponendo sulla tela l’intensità di un ricordo, trasformandolo in emozione dipinta.

Quando un po' più grande, con mio padre ho potuto incontrare il maestro nel suo studio, circondata dai suoi quadri mi è sembrato di toccare con gli occhi quei muri scrostati dai secoli, di immergermi in quelle atmosfere calde e soleggiate, come se anch’io ne fossi stata partecipe.

Così i suoi personaggi - i toreri spagnoli, i carabinieri di spalle che si trascinano sotto il peso della divisa, i mitici pretini sagome inconfondibilmente tracciate dalla sua mano, la ragazza delle giostre, la bambina che gioca al campanon, o quella che aspetta al pontile il vaporetto, - mi hanno aiutato a comprendere la semplice quotidianità di Gambino, fatta di un’introspezione espressa pittoricamente e mai a parole.

Timido, schivo, restio a spiegare la sua pittura, ha lasciato che fossero i suoi quadri a raccontarne i tormenti.

Perciò oltre a quei contorni marcati, dietro quelle linee scure di sapore nordico, persino espressionistico, si celano mai scordate le visioni che, ragazzino, si impressero indelebili nella sua mente: allora, a seguito del padre trasferito sull’Appennino vicino al fronte, fu costretto a scavare le fosse nei campi di lavoro e a lavare i cadaveri prima di seppellirli.

Da qui sembrano scaturire quelle figure magre, allampanate, riflesso inconscio di quella salute tanto cagionevole che da sempre accompagnò la sua esistenza.

Da posizione appartata rispetto alle manifestazioni internazionali e mondane veneziane, anch’egli ne ha comunque preso parte, partecipando più volte alle mostre della Bevilacqua La Masa a partire dal 1954 così come alla Biennale, dove entrò la prima e ultima volta nel 1956.

Pittore solitario, discreto nei confronti dei clamori delle grandi kermesse che lo hanno ospitato, ha saputo farsi amare per quel suo modo semplice ed immediato di fare pittura, vera.

Uno spazio a lui riservato è sempre presente nella nostra Galleria, così come la vetrina sulla calle a fianco del Teatro La Fenice è rigorosamente tutta sua.

Gli abbiamo dedicato tre mostre personali, nel 1986 e 1989, poi di nuovo nel 2003 in occasione della pubblicazione della monografia postuma presentata da Ennio Pouchard. Ed in ognuno di questi appuntamenti la sua presenza è stata forte e catalizzante. Le prime due volte, schivo, discreto, ha illustrato con parole semplici ma appassionate le sue opere a chi lo avvicinava.

La terza volta a parlare furono invece i suoi quadri, sempre carichi di una forza interiore che da essi scaturiva e tuttora emanano.

Michela Luce